Onorificenza

Medaglia d’onore ad Angelo Colombelli, deportato in un campo nazista

Dalle campagne bergamasche all'inferno del lager, dove entrò a 19 anni, il giorno del suo compleanno

Medaglia d’onore ad Angelo Colombelli, deportato in un campo nazista
Nel primo anno dell’ istituzione della “Giornata nazionale degli Internati Italiani nei campi di concentramento tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale” il 20 settembre, a Bergamo, il 18, sono state consegnate le medaglie d’onore alle famiglie dei 58 bergamaschi insigniti dell’onorificenza. Tra loro c’era anche il colognese Angelo Colombelli, prigioniero dal 1943 al 1945.
Angelo Colombelli
Angelo Colombelli

Un giovane agricoltore catapultato nell’inferno

Non aveva nemmeno 20 anni Angelo, quando la sua vita venne stravolta e segnata per sempre. Era nato a Bergamo il primo ottobre 1924, terzo di sei fratelli, precisamente a Colognola, dove risiedeva in una cascina con la sua famiglia: papà Giovanni nativo di Zanica, frazione Capannelle, e mamma Giuseppina Pandolfi, nata alla Cascina Battaina di Urgnano. Aveva frequentato la scuola elementare e poi aveva cominciato il lavoro nei campi e con gli animali, per aiutare la famiglia. Chiamato alle armi il 20 agosto 1943 nel Corpo degli alpini, battaglione Tirano, non fece nemmeno in tempo a indossare la divisa che, con l’armistizio dell’8 settembre, venne catturato a Merano dai nazisti e deportato in un campo di lavoro in Germania. Per una beffa del destino varcò la sua terrificante soglia proprio il giorno del suo compleanno. Riuscì a sopravvivere tra immense sofferenze e, al rientro in patria, tornò a fare l’agricoltore. A 45 anni, mentre effettuava lavori di trebbiatura nelle cascine di Cologno, conobbe Teresina Dadda, vedova con tre figli, la sposò nel 1969 e si trasferì in paese con lei, dove visse fino alla morte, avvenuta nel 2004. Ebbe un figlio a 52 anni, Gianluca, quando forse non se lo aspettava più. Un’esperienza brutale quella nel campo di lavoro, per anni taciuta ai familiari e quasi rimossa. Solo molto tempo dopo il suo ritorno aprì il suo cuore, raccontando quello che aveva patito per due lunghi anni.

“…Venni catturato l’ 8 o 9 settembre 1943 a Tirano dall’esercito tedesco che aveva circondato la mia caserma – aveva spiegato al figlio – mi portarono in Germania, al campo di Berlino Stammlager IIID, dove rimasi fino a dicembre 1943, poi arrivai a Spandau est, Buchenwald, nell’ex stabilimento BMW e lì restai dal gennaio 1944 all’aprile 1945.  Avevo indosso il vestito militare e un paio di zoccoli di legno, pesavo 72 kg ed era il 1 ottobre 1943. Quando ritornai in Italia, il 15 giugno 1945, pesavo circa 47 kg e portavo gli stessi vestiti e gli stessi zoccoli. Nel campo dormivo in stanze di circa 35 metri quadrati insieme ad altri 23 prigionieri. In questi locali c’erano letti a castello a tre piani e la pulizia la facevamo la domenica pomeriggio. Impiegavo un’ora di cammino per arrivare in fabbrica, dove lavoravo 12 ore al giorno per costruire le bombe V1 e V2, e poi facevo un’altra ora a piedi per rientrare negli alloggi. Lavoravo a orario alternato: una settimana dalle 5 alle 19 e l’altra dalle 19 alle 5. Mi fermavo mezz’ora per il pranzo, che era costituito sempre da una patata, una carota, un po’ di brodo e un pezzo di pane raffermo. Non ho mai ricevuto assistenza medica e ho riposato solo un giorno perché avevo la febbre.  Tutti eravamo sempre sorvegliati dalle guardie, che ci maltrattavano se ci vedevano fermi per riposare un attimo…”.

Il passaporto del prigioniero Angelo Colombelli

 

Un uomo schivo, tutto lavoro e famiglia

Un uomo di poche parole Angelo, abituato a lavorare e attaccatissimo alla famiglia.

“Mio padre non aveva hobby, le uniche sue passioni erano il lavoro e la famiglia – ha raccontato Gianluca – Essendosi sposato in tarda età non si aspettava di avere poi un figlio all’età di 52 anni, e la sua gioia per questo era stata immensa. Posso inoltre dire con certezza che è stato ancora più felice quando ho deciso di continuare il suo lavoro. Forse era questo il suo hobby: insegnarmi a lavorare la terra con la stessa passione che ci metteva lui. Da agricoltore era diventato agromeccanico e poi anche uno dei primi piccoli imprenditori ad avere acquistato le prime trebbiatrici trainate che facevano la trebbiatura del grano nei cortili delle cascine”.

Una vita semplice ma serena, lontana dal buio del lager, che voleva dimenticare.

“Mio padre non parlava spesso del periodo di prigionia, io infatti l’ho scoperto dopo i 16 anni, per lui era successo e basta – ha continuato il figlio – Sembrava quasi che avesse rimosso tutto. Mi raccontò però un episodio che lo aveva terrorizzato e che mi è rimasto impresso: un compagno di camerata si era ribellato ad una guardia perché aveva fame e una SS gli aveva sparato in fronte, uccidendolo sul colpo”.

L’iter per il riconoscimento della medaglia d’onore

E’ stato Gianluca a intraprendere l’iter per il riconoscimento dell’onorificenza.

“Ho deciso di farlo ora perché quando mio padre era in vita non ce n’è stata la possibilità – ha spiegato – nel 2000 avevamo provato con la richiesta di riconoscimento all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ma era stata negata, perché mio padre era stato internato in un campo di lavoro e non in uno di sterminio. Sono venuto a conoscenza delle possibilità di ottenere la medaglia d’onore grazie alla stampa e attraverso Maurizio Monzio Compagnoni – referente dell’Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento, dalla Guerra di Liberazione (Anrp) e loro familiari – mi sono informato e ho approfondito l’argomento”.

Essenziale è impedire l’oblìo.

“Io penso che sia molto importante non dimenticare e fare memoria di quello che è accaduto ai giovani di quella generazione – ha concluso Gianluca – ricordarlo ai giovani di tutte le generazioni future per costruire un mondo che non ripeta gli stessi errori. Questo è più che mai fondamentale anche oggi, con le nuove guerre in corso”.

Il nostro Paese ha intrapreso la strada della memoria e del riconoscimento del suo valore per le generazioni future solo decenni dopo il secondo conflitto mondiale, forse per la necessità di guarire le ferite e guardare avanti per tornare a vivere.

“Mio padre era una persona riservata – ha rimarcato Gianluca – inoltre credo che per lui l’esperienza della prigionia fosse una questione quasi intima, da dimenticare, e nessuno gli aveva mai detto che fosse così importante fino agli anni ’90/2000. L’intenzione di mantenere la memoria storica di quegli avvenimenti da parte delle istituzioni non si è mai manifestata e quindi lui riteneva semplicemente di aver fatto il suo dovere. A suo avviso non c’era niente di eccezionale in quello che aveva fatto ma era riuscito a ‘portare a casa la pelle’, come diceva. Questo era quello che ne pensava lui… Quando partì era un ragazzo di 19 anni che non era mai uscito nemmeno dalla Lombardia, se non da Bergamo, e la rielaborazione di quello che aveva vissuto, anche in tarda età, forse non è mai nemmeno avvenuta completamente: si trattava di ricordi sconnessi, la maggior parte infatti li aveva rimossi… l’unico modo per sopravvivere anche dopo la prigionia. Io credo che questo l’abbia salvato, altrimenti sarebbe rimasto fermo lì, a quell’esperienza così negativa”.

Angelo Colombelli
La medaglia d’onore

“Ho provato tanto orgoglio”

A ritirare la medaglia dalle mani del prefetto Luca Rotondi, a nome della famiglia e della comunità colognese, sono stati Gianluca e la sindaca Chiara Drago.

“Ho provato tanto orgoglio nei confronti di mio padre – ha affermato Gianluca – ad essere sincero non mi serviva la medaglia in quanto tale, ma volevo affermare il principio che mio padre fece la scelta di non combattere per l’esercito di Benito Mussolini. Questo soprattutto perché la mia libertà e quella delle mie figlie è tale anche grazie alla sua scelta. Noi siamo nati liberi, senza dover affrontare una guerra per esserlo, e la nostra libertà la dobbiamo agli uomini e alle donne che come mio padre hanno dovuto fare un enorme sacrificio”.

“Un momento di forte emozione e memoria, che ci ricorda il valore del sacrificio e la necessità di trasmettere alle nuove generazioni il significato di libertà e dignità – ha commentato la prima cittadina – Il Comune di Cologno si stringe intorno alla famiglia Colombelli e rinnova il proprio impegno nel custodire la memoria dei nostri concittadini che hanno vissuto le pagine più difficili della Storia”.

L’opera dell’Anrp per non dimenticare

L’Anrp, nata nel 1946-47, aveva una sezione in quasi tutti i Comuni della nostra Provincia. Si occupava dell’inserimento lavorativo, della pensione e di altre pratiche per gli ex internati. Nel tempo si è poi trasformata, occupandosi di divulgazione e organizzazione di convegni. Ha sede a Roma, dove esiste una mostra permanente, una biblioteca e un archivio. Per la provincia bergamasca il referente è Maurizio Monzio Compagnoni che, con una decina di volontari, si occupa di rintracciare la documentazione riguardante i deportati nei lager tedeschi. Si tratta prevalentemente di militari dell’Esercito, della Marina, dell’Arma dei carabinieri e della Guardia di Finanza.
“La domanda deve essere inoltrata a Roma, ad una commissione preposta del Ministero dell’Interno, da un parente diretto – ha spiegato – vanno allegati documenti che comprovino lo stato di cattura da parte dei tedeschi: per i militari parliamo del ruolo matricolare, per i civili invece delle schede pseudo-sanitarie formulate dal rientro dai campi di internamento conservate nell’archivio della Curia di Bergamo, dove è depositato il fondo dell’ex ospedale della Clementina. Se non si trova esiste un sito internet tedesco, Arolsen Archives – Centro internazionale sulle persecuzioni naziste, dove stanno digitalizzando i documenti in loro possesso: oltre 30 milioni di documenti di persone di diverse nazionalità. Se la domanda viene accettata segue un iter che poi la porta al definitivo riconoscimento della Presidenza della Repubblica. Questa medaglia è la più alta onorificenza che possa essere assegnata a un cittadino”.
Di norma di tutto questo si occupa l’associazione.
“Formulo un elenco con dei nomi di ex internati che potenzialmente potrebbero essere insigniti della medaglia d’onore e lo sottopongo alle Amministrazioni comunali – ha spiegato – queste ultime, tramite l’ufficio Anagrafe, rintracciano i parenti. Peraltro non sempre abbiamo riscontro positivo. Fatto questo, decidiamo la data dell’incontro, presento ai familiari la questione e cosa è necessario fare per ottenere il riconoscimento. Il caso di Colombelli, che ci ha contattato direttamente, è isolato”.

“Almeno 30mila bergamaschi finirono internati”

I numeri sono impressionanti.
“Tra militari e civili, uomini e donne, non meno di 30mila bergamaschi hanno vissuto l’esperienza dei campi – ha concluso Monzio Compagnoni – ad oggi si è a conoscenza di almeno 2000-2500 deceduti e in una decina di anni sono state assegnate 3000-3500 onorificenze. Abbiamo bisogno di volontari sulla Bassa bergamasca, un territorio su cui finora abbiamo lavorato poco”.