Da Cologno al Serio uno squarcio sulla realtà degli hacker, della tecnologia che nasce dal basso e del delicato tema della sorveglianza grazie all’opera di un giovane informatico prestato al mondo dell’editoria, Giuseppe Checchia.
Genesi di un hacker
Un mondo in cui tutti sono immersi quello della tecnologia, ma di cui pochi hanno davvero consapevolezza e che oggi come ieri ha risvolti sulla sicurezza di ognuno. Lo sa bene Checchia, informatico che dopo diverse esperienze e ruoli è approdato al settore ricerca e sviluppo, occupandosi in particolare della progettazione di soluzioni in materia di protezione dati. Un esperto che ha sentito l’esigenza di scrivere un libro, “Genesi di un hacker”, che affronta un tema cruciale ma forse poco percepito.
“Non ho mai pensato di avere qualcosa di importante da raccontare, ma alcune esperienze ti costringono a cambiare prospettiva – ha spiegato – Questo libro nasce per condividere un’idea precisa: dietro la tecnologia ci sono comunità reali e il tema della sorveglianza resta aperto. Oggi gli intrecci del web sono più caotici, tra social tossici, manipolazioni e intelligenze artificiali. Queste dinamiche si sono già presentate in passato e dimenticarle ora sarebbe la scelta sbagliata”.
La storia liberamente ispirata all’esperienza di “rampART”, laboratorio londinese in cui sperimentazione tecnica e impegno politico si sono incontrati.
“Durante la pandemia ho ritrovato in vecchi hard disk una serie di foto, chat e via discorrendo, che avevano a che fare con esperienze risalenti a una ventina d’anni fa, in un contesto molto diverso da quello odierno – ha spiegato – Parlo dell’est di Londra, una zona relativamente povera con una storia di attivismo, in particolare del centro sociale ‘rampArt’, poi chiuso, nel quale era presente un laboratorio di informatica in cui si riunivano personaggi della scena hacker di quei tempi, che hanno contribuito alla nascita di una serie di tecnologie che usiamo tutt’oggi. Sono state sviluppate da una comunità gratuitamente, non da un’azienda, penso per esempio alle tecnologie dietro Whatsapp… poi però i capitali finanziari se ne sono accorti e le hanno fatte proprie, snaturandone l’intento originario. Sullo sfondo scorrono la cultura FOSS come scelta etica, i problemi di privacy e sorveglianza, le contraddizioni di un mondo sempre più connesso. In un presente segnato da manifestazioni, sgomberi, infiltrazioni, polarizzazioni e controllo delle opinioni, un racconto come questo offre strumenti nuovi a chi sceglie di stare dalla parte giusta. La vicenda mostra come le sfide di ieri tornino con volti diversi, ma con le stesse radici: capire il passato aiuta a leggere il presente e a prepararsi al futuro”.
Materiale che Checchia ha messo nel suo primo libro.
“Ho pensato che fosse interessante parlarne – ha continuato – ma essendo conscio di non avere le competenze per scrivere un libro storico e del fatto che avrebbe riguardato anche persone protagoniste di vicissitudini particolari, visto il clima politico di quegli anni caratterizzati dall’European social forum (rete che metteva insieme associazioni e movimenti no-global contrari al neoliberismo, alla globalizzazione capitalistica o a qualsiasi forma di imperialismo ndr.), ho deciso di pensare a una storia di fantasia ma basata su ambientazioni storicamente corrette”.
“Servono spazi per favorire la tecnologia che viene dal basso”
Lo scopo del volume è diffondere un’idea: la sicurezza informatica allora come oggi deve trovare spazio nella vita delle persone. E anche i Comuni possono fare la loro parte.
“Coloro che si riunivano nel centro sociale londinese di cui parlo nel libro in un certo senso hanno cambiato il mondo e le idee che circolavano allora sono forti ancora oggi – ha chiarito Cecchia – la sensibilità che riguarda la sicurezza informatica viene da lì. Ecco perché sono necessari spazi fisici per evitare che qualcuno provi a prendere il controllo su qualcosa che era stato creato come strumento di libertà. Mi spiego meglio: chi governa, e quindi anche le Amministrazioni comunali, devono rendersi conto che gli hacker, per così dire ‘buoni’, e i movimenti di cui fanno parte sono già su internet, dove circolano anche nuovi dispositivi tecnologici, ma questi ragazzi non hanno facile accesso a spazi fisici per fare riunioni, assemblare componenti e così via. Si ritrovano negli scantinati, nelle taverne. Le Amministrazioni potrebbero cominciare a rispondere alle loro e-mail quando chiedono luoghi idonei, invece chi le riceve spesso non capisce quale potrebbe essere l’utilità di una nuova tecnologia che sta nascendo. E’ necessario fare rete e favorire una cultura che nasce dal basso a vantaggio di tutti, invece questo manca e così grandi corporazioni di aziende finiscono per avere controllo su internet e tutti siamo schiavi degli algoritmi. In Italia peraltro poi abbiamo tante eccellenze in quest’ambito ma non ricevendo ascolto emigrano”.