Al fondatore di "Nama" il premio Birraio emergente dell'anno
Com'è cambiato il mondo (locale ma non solo) della birra artigianale? Ne abbiamo parlato con Mattia Bonardi
È Mattia Bonardi, fondatore del birrificio artigianale «Nama» di Treviglio, il "Birraio emergente dell'anno" secondo uno dei più importanti concorsi del suo settore a livello nazionale: "Birraio dell'anno", organizzato dal network Fermento Birra. Un riconoscimento importante, per il 36enne originario di Brignano Gera d'Adda, che incorona una carriera cominciata tredici anni fa in uno dei templi trevigliesi della movida: il birrificio Elav, ora chiuso insieme al suo pub di viale Battisti.
Mattia Bonardi (di Nama) premiato a Firenze
Lo scorso weekend, Bonardi ha ritirato il premio a Firenze: se Birraio dell'anno è stato eletto Enrico Ciani di «Birra dell'Eremo» (Assisi, Umbria), al brignanese è stato assegnato il premio riservato agli "emergenti". Premi che non celebrano una specifica birra, né uno specifico birrificio, ma proprio la figura del birraio a 360 gradi, inteso come "nuova" figura professionale che attingendo alla secolare tradizione della produzione brassicola artigianale, integra competenze e «soft skills» estremamente contemporanee: dall'attenzione a ricerca e sviluppo allo sviluppo commerciale di un brand, fino all'organizzazione di eventi.
Tutto cominciò in Elav, il (fu) tempio della birra artigianale trevigliese che ora non esiste più...
Avevo 23 anni e fu la mia prima esperienza professionale. Prima leggevo di birra, cominciavo ad appassionarmi al mondo della degustazione, e facevo anche qualche birra in casa, ma è stato con Elav che ho cominciato a lavorare in questo mondo, avendo la possibilità di un'esperienza totale sulla produzione. C'era un impianto fermo, e nulla più: dovevamo avviare il birrificio e cominciare a produrre partendo dalla scelta delle materie prime. Ma poi facevamo anche tutto il resto, dall'ideazione delle linee di prodotto alle grafiche del brand... Io del resto venivo da quel mondo, dagli studi da Interior designer al Politecnico di Milano. Tre anni importanti, fino al 2013.
Da lì c'è stata un'esperienza all'estero...
Uno stage da Brewdog, un birrificio scozzese. Per me è stata la prima volta in una realtà strutturata e importante, rivoluzionaria a suo tempo per il mondo della birra craft. Decisi però di non trasferirmi a vivere in Scozia e di tornare in Italia... E arrivai a Lambrate
Birrificio Lambrate, il «gotha» locale del mondo birraio.
Dall'aprile del 2013 al dicembre 2021: quasi nove anni per quella che stata senza dubbio la mia esperienza lavorativa più importante. Un vero dare e avere, con in cui ho imparato tanto cominciando come birraio e arrivando ad essere il responsabile della produzione. Esperienze all'estero, festival, collaborazioni... Ho imparato tanto.
E poi è arrivato Nama Brewing, il tuo birrificio fondato in via Roggia Vignola a Treviglio, che ora gestisci con Stefano Angeretti. Da birraio a imprenditore il passo non è breve...
Il nome viene dal giapponese: significa "genuino". La filosofia è più o meno la stessa: produrre birre artigianali di alta qualità ma al tempo stesso buone anche per palati non troppo accademici, e adatte per una serata tranquilla tra amici. Da imprenditore sì, le cose cambiano. Ma fortunatamente riesco ancora a restare "sul prodotto", a sperimentare e a creare nuove birre, anche se il tempo che se ne va per la parte amministrativa e gestionale è importante... Oggi da Nama lavorano tre dipendenti, oltre a noi due soci.
La quota di mercato della birra artigianale in Italia sta tra il 3% e il 4%, ci sono ampi margini di crescita. Dopo tredici anni, come ha visto cambiare il tuo settore e come si sono evoluti i gusti del pubblico in fatto di birra artigianale?
Di certo c'è in generale molta più consapevolezza, nel pubblico. Prima occorreva "spiegare tutto", ora la cultura della birra di qualità è decisamente più diffusa. Aumentano quindi sia i birrifici artigianali che il loro pubblico, anche se dopo il Covid mi sembra che le dinamiche siano un po' cambiate.
In che senso?
C'è stato indubbiamente un rallentamento. Eppure, chi è sopravvissuto si è dato una scossa. Chi è cresciuto ha investito in tecnologia, ad esempio, e nella comunicazione con il pubblico. Eppure, anche rispetto alla distribuzione, se prima si lavorava soprattutto con pub specializzati ora sono sempre più numerosi i bar - anche "di paese" - che comprano e propongono birre artigianali.
Quello delle IPA resta sempre il «biglietto d'ingresso» al mondo delle birre artigianali?
Resta quello lo "schiaffo", senza dubbio, per chi si approccia per la prima volta ad una birra che non sia la "solita" lager industriale. Il veicolo per entrare in questo mondo passa dalle "luppolate".
La tua birra del cuore?
Resta quella che ho sviluppato a Lambrate, American Magut, che ha inaugurato di fatto un nuovo stile che unisce la facilità di una pils con la luppolatura di una Ipa. Sono passati dieci anni...
E a Nama, che progetti avete per quest'anno?
L'anno scorso siamo stati il secondo birrificio in Italia per numero di nuovo birre prodotte, secondo «Cronache di birra»: diciotto, più varie collaborazioni. Ora, dopo un anno di intensa sperimentazione, l'idea è di consolidare il mercato e aumentare i volumi di produzione, per quel che riusciamo, selezionando quello che funziona meglio e tirando un po' le somme. Ma senza rinunciare ovviamente a puntare alto sulla qualità, nei campi che ci contraddistinguono: le luppolate e le birre di stampo tedesco.