di Sharon Vassallo
“Mentre prepari la guerra, pensa agli altri. Non dimenticare coloro che chiedono la pace. Mentre torni a casa, pensa agli altri: non dimenticare i popoli delle tende.” Le parole del poeta palestinese Mahmoud Darwish aprono e incorniciano “Testimoni di Palestina”, l’iniziativa tenutasi il 18 dicembre allo Spazio HUB di piazza Garibaldi a Treviglio. Un richiamo etico netto: l’indifferenza è una scelta, pensare agli altri è responsabilità.
Testimoni di Palestina
La serata, promossa dal Comitato per la Palestina, ha avuto l’obiettivo di far conoscere “il dolore, l’apartheid e le condizioni di vita” imposte al popolo palestinese, per comprenderne “le ragioni della resistenza”. Sul palco tre testimoni: Marco Sandrone, capo progetto a Gaza per Medici Senza Frontiere, Dario Crippa, dell’equipaggio della Global Sumud Flotilla, e Laila Awad, dell’Associazione Amicizia Bergamo-Palestina.
Il Comitato, attivo da gennaio 2024 con iniziative di sensibilizzazione e mobilitazione, è stato presentato da Antonella Frecchiami, psicologa, che ha insistito sulla necessità di costruire spazi di consapevolezza, informazione e solidarietà attiva. L’incontro del 18 dicembre viene indicato come l’iniziativa più significativa finora realizzata e un passaggio importante per coinvolgere la cittadinanza trevigliese.
Prima delle testimonianze, emerge una domanda ricorrente rivolta a chi si mobilita: perché concentrarsi sulla Palestina, in un mondo attraversato da molte guerre? Per Frecchiami la domanda rivela un’anomalia: “perché solo nel caso della Palestina sembra non essere possibile criticare chi uccide e massacra senza essere delegittimati”. Le testimonianze vengono negate, l’accesso ai giornalisti internazionali ostacolato, mentre si investe “massicciamente” nella propaganda. Qui, aggiunge, agisce anche una manipolazione del linguaggio: “equiparare antiebraismo, antisemitismo e antisionismo è pericoloso e scorretto”. La Palestina, viene detto, è diversa perché si parla di “genocidio” e di “colonialismo di insediamento”: una violenza strutturale che investe la vita quotidiana, dagli ospedali alla libertà di movimento fino all’identità. Resistere significa rifiutare di essere ridotti a oggetti, continuare a testimoniare, non lasciare che il silenzio diventi complice.

Cinquanta giorni a Gaza
Marco Sandrone racconta circa quaranta giorni a Gaza City: una permanenza prevista più lunga, interrotta da un’evacuazione anticipata che costringe il team a lasciare la città. Ricorrente e pungente era una domanda posta dei colleghi palestinesi: se in Italia si comprenda davvero che la sofferenza “non inizia il 7 ottobre”, ma affonda in anni di chiusura, controllo e aggressioni periodiche. Gaza viene descritta come “una prigione a cielo aperto”, l’ingresso nella Striscia come un’esperienza distopica tra reti e filo spinato. Nel racconto, l’attacco di Hamas e la presa di ostaggi diventano lo snodo da cui si innesta la risposta israeliana: invasione di terra e operazioni concentrate nel nord e su Gaza City. In questo contesto Sandrone sottolinea il ruolo di MSF, presente dagli anni Novanta e composta in larga parte da operatori palestinesi, attiva con ospedali, strutture da campo, ambulatori, cliniche mobili.
Il quadro restituito è quello di una crisi umanitaria gravissima: morti e feriti, ustioni, amputazioni, traumi ortopedici, persone bloccate senza accesso a cure specialistiche perché impossibilitate a uscire. Segnala molte richieste di evacuazione medica, tra cui bambini, e un contributo europeo – italiano in particolare – giudicato insufficiente. Denuncia poi la distruzione delle infrastrutture essenziali: sistema idrico e igienico-sanitario, ostacoli all’ingresso di materiali e carburante per gli impianti, inclusi quelli di desalinizzazione.
A questo si aggiunge la distruzione delle strade e l’impatto sugli spostamenti. “Particolarmente grave” l’attacco al sistema sanitario: operatori uccisi, ospedali colpiti, poche strutture rimaste solo parzialmente funzionanti. Sullo sfondo, il crollo del rispetto del diritto internazionale umanitario, la crisi alimentare, la carenza di beni primari e il cibo spesso inadatto a contrastare la malnutrizione, soprattutto per bambini e donne in gravidanza. La testimonianza include sfollamento forzato e violenza psicologica: popolazione spinta verso sud in spazi sempre più ristretti, costi altissimi delle tende, città divisa in blocchi, avvisi di evacuazione tardivi o assenti, tempi minimi tra allerta e bombardamenti. L’evacuazione di MSF diventa inevitabile: troppi bombardamenti vicino alle cliniche, avanzata dei carri armati, divieti di movimento. Eppure resta una nota di speranza: medici che scelgono di restare e il ricordo dei colleghi MSF uccisi anche fuori dagli ospedali. Sandrone chiude con una domanda che sintetizza il senso della serata: “In Italia la gente è davvero cosciente del fatto che non è iniziato il 7 ottobre?”.
L’esperienza della Global Sumud Flotilla
Dario Crippa, della Global Sumud Flotilla, apre spostando il focus dall’identità dei singoli all’azione: “Quando si parla di Flottiglia non si parla di chi ne fa parte: è importante l’azione umanitaria in sé”. Poi entra subito nel merito: “Attraverso questo evento si parla di Palestina e di genocidio a Gaza”. Ricostruisce l’origine del movimento: nasce attorno a giugno dalla necessità di “una mobilitazione dal basso”, “un segnale forte da parte dei popoli del mondo”. L’idea è ribadita: “I popoli hanno una visione diversa rispetto ai propri governi… non concordano necessariamente con i governi”. Da qui la Global March to Gaza, la marcia della pace in Egitto bloccata al Cairo: “eravamo circa 4.000”, pronti a marciare in modo non violento con aiuti umanitari, ma fermati perché “l’Egitto è uno dei principali collaboratori di Israele”. Per Crippa è un “fallimento solo apparente”: in due settimane, dice, si è vista una capacità di organizzazione che segnala un bisogno “globale”.
Dentro quel contesto nasce la Flottiglia: “questa è la trentaseiesima”, ricorda, e racconta l’intreccio con altre realtà, tra cui Freedom Flotilla Coalition, movimento tunisino e un convoglio di origine malaysiana. Inserisce anche un ricordo personale del 2016 in Cisgiordania: villaggi palestinesi accanto a colonie costruite rapidamente, checkpoint, disuguaglianza di trattamento ed un anziano che gli lascia una richiesta: “Per favore, raccontate in Europa quello che ci stanno facendo”.
Poi la cronaca del 2024. A settembre la partenza, nel suo caso da Catania, con “45 barche a vela cariche di aiuti umanitari”, insieme ad altre salpate da Barcellona e Tunisi. Prima della traversata, spiega Crippa, vengono organizzati corsi sulla non violenza. Rivendica inoltre la cornice legale dell’azione: la navigazione avviene in acque internazionali e, secondo il diritto internazionale, Israele non può impedire l’ingresso degli aiuti.
Al largo di Creta si verifica il primo attacco notturno: droni e una bomba sonora. Non resterà un episodio isolato. Crippa parla di tredici attacchi, con tre imbarcazioni gravemente danneggiate. A quel punto, riferisce, Israele comunica all’Italia la possibilità di aprire il fuoco, con il rischio di vittime. “L’Italia informa le famiglie, ma non interviene”, sostiene. A circa 80 chilometri dalle acque palestinesi scatta l’intercetto. Soldati israeliani salgono a bordo con mitragliatori puntati; l’equipaggio rimane per tutta la notte sul ponte, sotto minaccia armata. In porto il trattamento peggiora: ginocchio a terra sotto il sole, “senza acqua né cibo”, perquisizioni, sottrazioni e un’accusa – definita “falsa” – di ingresso illegale in Israele.
La detenzione, racconta, è segnata da deprivazione del sonno, intimidazioni armate e assenza di cure: un uomo di settant’anni che tossisce sangue senza assistenza, malati cronici privati delle medicine, acqua imbevibile. “È solo una minima parte di ciò che subiscono quotidianamente i palestinesi”, conclude, ricordando che quella struttura è utilizzata quasi esclusivamente per detenuti palestinesi.
Il ritorno in Italia diventa un confronto netto: “io torno ed ho una casa, loro no”. La conclusione è politica e civile: “la Flottiglia ha ottenuto almeno un risultato, quello di ricordare che esistiamo, che siamo umani e che siamo in tanti”. L’informazione sulla Palestina, si osserva, è ciclica: scompare e riemerge, e “sta a noi mantenerla viva”. Da qui l’ultimo passaggio: “Se vogliamo cambiare la politica, dobbiamo cambiare la società”.
La Palestina è il primo fronte di lotta
A chiudere la serata è l’intervento di Laila Awad, che si presenta come rappresentante dell’Associazione Amicizia Bergamo Palestina ricordando il progetto “Un’ambulanza per Gaza”, un sostegno sanitario e politico legato all’ospedale Al-Awda. Richiama anche il suo ruolo nei Giovani Palestinesi d’Italia: “non siamo semplicemente solidali con questa lotta, ma ne siamo del tutto interni”.
Awad propone quindi una “riflessione di fase” sullo scenario internazionale, citando la Risoluzione 2803 del Consiglio di Sicurezza ONU e il cosiddetto piano di Trump, che — afferma — verrebbe rivendicato anche dal governo Meloni. La risoluzione, sostiene, istituisce organismi per il controllo e la ricostruzione di Gaza e un esecutivo palestinese temporaneo non scelto dai palestinesi, ma definito dentro un impianto internazionale sotto controllo statunitense. Collegando questo quadro alla Dichiarazione di New York, indica il ruolo di attori statali e Stati arabi nel meccanismo che definisce imperialista.
Sul piano militare, Awad afferma che gli obiettivi israeliani — distruggere Hamas, eliminare la resistenza armata, spezzare il legame tra resistenza e popolo — “non sono stati raggiunti: il legame non si è spezzato, si è rafforzato”. Denuncia poi i tre assi della fase attuale: richiesta di smilitarizzazione, normalizzazione del progetto sionista, uso strumentale della ricostruzione. Mentre Gaza viene devastata, dice, la Cisgiordania viene annessa pezzo dopo pezzo. E la ricostruzione rischia di diventare un affare economico e geopolitico.
Infine, Awad lega la Palestina all’Italia: le mobilitazioni nate attorno alla flottiglia, afferma, hanno “bruciato” il Paese per settimane con blocchi e scioperi. Il calo attuale, dice, è fisiologico, ma non deve cancellare gli insegnamenti: la centralità dello sciopero politico, l’unione tra studenti e lavoratori, la consapevolezza che la Palestina è “il primo fronte di lotta” contro un sistema globale che punta alla guerra generalizzata, al riarmo e alla repressione. Anche attraverso strumenti legislativi, conclude, che provano a criminalizzare la solidarietà alla Palestina.
Un grido di aiuto di un popolo, restituito attraverso le voci di chi ha scelto di non restare in silenzio. La serata si conclude senza risposte certe né soluzioni immediate, ma con l’auspicio che tanti piccoli passi, compiuti insieme, possano contribuire a smuovere l’indifferenza che spesso avvolge lo sguardo dell’uomo verso l’altro.