Neogenitori e lavoro: oltre 50mila dimissioni e il 73% sono donne
Coniugare lavoro e famiglia spesso diventa impossibile tanto da dover rinunciare alla propria occupazione limitando, dall'altra parte, il numero di figli.
Il 24 giugno scorso, l’Ispettorato del Lavoro e le Consigliere nazionali hanno presentato in videoconferenza i dati relativi alle convalide delle dimissioni relativi all’anno solare 2019: i provvedimenti di convalida sono stati 51.558, il 4% in più rispetto all’anno precedente di cui 37.611 presentate da neomamme (il 73% del totale e il 4,6% in più rispetto al 2018); 13.947 i papà che si sono dimessi, il 27% del totale con un aumento del 3,4% rispetto allo scorso anno.
Neogenitori e lavoro: a sacrificarsi sono le donne
Dati sempre scoraggianti, che evidenziano in generale le difficoltà dei neogenitori lavoratori/lavoratrici a conciliare la vita famigliare con quella lavorativa. Dati che non discostano dai trend degli anni precedenti di o rispetto a qualunque altro studio, report, analisi sia stato fatto su questo tema negli ultimi dieci anni, ma che vengono trattati come notizia e ripresi in interventi, dichiarazioni, gli articoli. Ad analizzare i dati è la consigliera della Provincia di Bergamo per le Pari Opportunità Isabel Perletti che riassume bene il problema individuando come "l’essenza è che oggi in Italia, essere madre è una colpa".
Il valore aggiunto della maternità, invocato da molti, resta solo un buon proposito specie nel mercato del lavoro dove le discriminazioni di genere colpiscono maggiormente lavoratrici madri. Nonostante i numerosi studi internazionali sulla relazione direttamente proporzionale tra occupazione femminile e numero di figli/e, spesso è proprio la maternità a determinare l’abbandono del posto di lavoro per l’impossibilità di conciliare la vita e lavoro e a creare quelle condizioni che rendono difficoltoso il rientro post-maternità.
Italia sempre meno un Paese per madri
L’Italia nel 2019, secondo il Global Gender Gap Report 2020, si colloca al 76esimo posto su 153 Paesi con un peggioramento di 6 posizioni rispetto al 2018.
Pesa la bassa occupazione femminile in Italia, lavora ancora meno di una donna su due, e le differenze retributive tra uomini e donne a parità di mansione. Risolvere il problema del lavoro femminile non solo avrebbe impatti positivi sulla natalità (in Italia e in Lombardia rispettivamente 1,29 e 1,36 figli/e per donna) ma si avrebbe un impatto positivo sulla crescita economica nazionale e dell’Unione europea.
A Bergamo non va meglio
Il tasso di occupazione femminile a Bergamo nel 2019 si attestava al 54%, di sotto della media lombarda pari (59,3%) e sopra quello nazionale del (49%). Quello maschile invece si attestava al 76%, con una differenza di ben quasi 22 punti percentuali.
Con la ripresa economica il gap di genere è aumentato, sebbene anche il tasso di occupazione femminile sia costantemente aumentato dal 2017 al 2019.
Secondo i dati della Provincia di Bergamo, nel primo trimestre dell’emergenza Covid si sono ridotti le posizioni di lavoro dipendente causa stipo delle nuove assunzioni e mancato rinnovo dei contratti temporanei. Il mese di maggio segna un calo occupazionale di 6,6 mila posizioni. La componente femminile registra un calo più accentuato di quella maschile nelle nuove assunzioni (-49,7% contro 44.6%) e una minore riduzione delle cessazioni (-16,2% contro 22,3%). I posti di lavoro persi sono stati quella a maggior concentrazione femminile (segregazione settoriale).
Secondo i dati dell’Ispettorato Territoriale di Bergamo nel 2019 hanno presentato le dimissioni 1.430 neogenitori contro 1.459 del 2018 e 947 del 2017.
Confrontando il dato 2019 e anche quello relativo al I semestre del 2020 e in un’ottica di proiezione si evince una debole contrazione totale del fenomeno, con un aumento delle dimissioni delle lavoratrici madri. Preoccupa l’attuale stagnazione del mercato lavoro, la possibile recessione economica i cui effetti potranno essere visibili a partire dal prossimo autunno e soprattutto la sospensione dei servizi di supporto dei servizi di cura durante il lockdown e la loro incerta riapertura per i prossimi mesi.
Seconda un’ottica di genere delle 1.430 dimissioni volontarie presentate, 1.051 riguarda donne (73,5%) contro il 379 degli uomini (26,5%). In termini percentuali nel 2020 le donne rappresentano il 78,8% (con un aumento di ben 5 rispetto all’anno precedente) e 395 in valori assoluti.
Troppe donne tra 29 e 44 anni dicono addio al lavoro
Esaminando il tipo di recesso si nota che prevalgono le dimissioni volontarie nelle madri: 1.037 nel 2019 (98,67%), dato confermato anche per il 2020 (96,71%) e stesso dicasi per quelle dei padri: 307 nel 2019 (97,63%). Il tipo di recesso, quale giusta causa e risoluzione consensuale rappresentano insieme nel 2019 solo il 1,34% e lo stesso vale anche per gli anni 2017 e 2018.
Considerando l’età delle lavoratrici le dimissioni si concentrano per gli anni dal 2017 ad oggi in due fasce d’età: 29-34 e 34-44, nel 2019 presentano lo stesso valore assoluto (402).
Sono quindi 804 le lavoratrici tra i 29-44 che hanno presentato dimissioni, lavoratrici che si trovano nella classe di età più fertile che si dimettono con l’arrivo del primo/a o del secondo/a figlio/a.
Analizzando l’andamento temporale si notano riduzioni in valori percentuali nella fascia d’età fino a 24 anni il che conferma che l’arrivo del primo/a figlio/a coincida con un’età matura e quindi una scelta razionale della famiglia.
Le dimissioni dei lavoratori padri si concentra nella fascia d’età 34-48 (48,28% del totale). Diversa è però la motivazione che induce a lasciare il posto di lavoro, ossia non per mancanza di conciliazione vita-lavoro ma piuttosto per cambio di lavoro.
Considerando la cittadinanza della lavoratrice si nota che nel 2019, le italiane sono 908 (86,4%), UE 48 (4,6%) ed Extra UE 95 (9,04%). Nel I semestre 2020 sono state 333 le cittadine italiane dimissionarie contro 40 Extra –UE e 48 UE. In un’ottica temporale si nota un andamento stabile delle dimissioni dei tre gruppi delle donne.
I padri dimissionari italiani rappresentano l’80% del totale nel 2019 (303), contro 16,3% Extra UE e 4% UE, con una tendenza temporale in diminuzione in tutti e tre i gruppi.
Dimissioni, più dell'80% nel terziario
Analizzando il settore produttivo si nota che nel 2019 ben 863 lavoratrici madri hanno dato le dimissioni nel terziario (82,11% del totale femminile), con andamento stabile dal 2017 (78,98%) al 2020 (78.48 %).
Nel dettaglio i comparti più colpiti sono il commercio all’ingrosso e al dettaglio, sanità e assistenza sociale e noleggio, agenzia viaggi e servizi alle imprese (rispettivamente con 18,93%, 11,32%, 10,37% del totale femminile) con un andamento stabile temporale dal 2017 al 2018.
Al 30 giugno 2020 ben 310 lavoratrici madri del terziario hanno lasciato il loro posto di lavoro, di cui 70 nel commercio.
La concentrazione delle dimissioni delle neo-mamme in tali settori è in parte dovuta ai maggiori livelli occupazionali delle donne (segregazione settoriale) e dalla presenza di donne mediamente giovani o comunque in età fertile.
Segue l’industria con 150 dimissioni (14.27% del totale femminile)
Si dimettono impiegate e operai
Esaminando la qualifica professionale della madre lavoratrice e padre lavoratore notiamo una significa differenza nella concentrazione costante nel tempo: nel I semestre 2020 le dimissioni delle lavoratrici madri si concentra nella qualifica di impiegata (56,20% sul totale femminile) mentre i padri nella qualifica di operaio (81,13%), andamento in linea con gli anni precedenti (2017-2019).
Residuali sono le dimissioni nella qualifica di dirigente e quadro. Perché? Da un lato l’esiguo numero delle dimissioni da ruoli apicali può essere dovuto all’età avanzata in cui si raggiungono tali livelli posizioni; dall’altro la maggiore autonomia gestionale del tempo per queste figure può consentire loro una più facile conciliazione; infine dato il livello retributivo la lavoratrice dirigente può contare
su servizi di cura a pagamento.
Manca la flessibilità aziendale
Osservando le motivazioni che vengono date in fase di convalida delle dimissioni si nota che nel 2019 ben il 67,47% riguarda la difficoltà di conciliare vita lavoro, suddivise per ragioni legate ai servizi di cura (121) e legate all’azienda (205).
Tra le ragioni legate al servizio di cura predomina l’assenza di parenti di supporto (166) seguito all’alto costo di asili nidi e baby sitter (34).
Tra le ragioni legate all’azienda in primis si trova condizioni di lavoro e organizzazioni del lavoro particolarmente gravoso e/o difficilmente conciliabili con le esigenze di cura della prole (380); seguiti da una mancata concessione del part-time, (97) e l’impossibilità di modificare l’orario di lavoro (9)6; lontananza della sede di lavoro (73).
Considerando la fascia d’età dei figli/e prevalgono le madri dimissionarie di figli/e con meno di un anno: 42,11 % nel 2019 e 45.53% nel 2020 (rispettivamente 956 e 351). Ciò può essere collegato alla possibilità di percepire la disoccupazione anche in caso di dimissioni prima del compimento di un anno del bambino. Seguono le madri con figli/e da 1 a 3 anni (30,53 nel 2019 e 29,57% nel 2020).
Part-time e flessibilità oraria negata
Serve invece flessibilità nell’orario di lavoro e un’organizzazione aziendale che faciliti la conciliazione alle neomamme.
Nel I semestre 2020 solo il 6,58 % delle lavoratrici madri dimissionarie ha prima presentato una richiesta part-time o flessibilità del lavoro (nel 2019 era il 5,4%).
Anche solo la richiesta per le lavoratrici madri è un ostacolo. Scoraggiate, timorose di non ottenere la risposta desiderata le madri non chiedono flessibilità ma si sentono costrette a rassegnare le proprie dimissioni.
Il lockdown porta a galla i problemi
Simili dati sulle dimissioni volontarie impongono di riequilibrare tempo, energie e risorse dei carichi di cura nella famiglia con campagne contro gli stereotipi di genere da un lato, ma anche offrire servizi di cura idonei, accessibili in tema di rette ma accessibili a tutti bambini/e dall’altro.
Il lockdown ha accentuato le disfunzioni già presenti nel mercato del lavoro femminile quali la difficoltà di conciliare vita lavoro delle donne causa assenza dei servizi di cura di supporto: si pensi ai servizi educativi integrati e l’assenza di supporto di parenti e nonni nella gestione dei figli/e. Durante il lockdown le donne, specie nei settori dei servizi e ad alta femminilizzazione, hanno continuato a lavorare cercando di conciliare il loro ruolo di lavoratrice con quello di madre e figlia, assistendo prole e/o genitori anziani.
Lo smartworking, trattasi per lo più di lavoro da remoto purtroppo, è stato un privilegio di alcune (le impiegate) e non di altre, si pensi alle operaie. Alcuni strumenti messi in campo: quali bonus baby sitting e congedi parentali sono stati elaborati in un’ottica di breve periodo, la fase di emergenza e potrebbero essere un'utile strumento qualora fossero resi strutturali e più snelli nell’utilizzo.
"Agire in tempi brevi"
"Allo stato attuale non è più sufficiente limitarsi alla denuncia per noi soggetti istituzionali ma è doveroso operare concretamente. Servono competenze, progettualità e soprattutto una reale volontà politica di non fermarsi al commento dei dati che certificano la gravità della condizione delle donne in Italia o a istituire tavoli di lavoro poco operativi, ma di agire in prima linea per porvi rimedio - commenta Perletti - Lo stesso Family Act, che sulla carta si pone grandi obiettivi in tema di conciliazione vita lavoro, con i lunghi tempi dell’iter legislativo, rischia di essere l’ennesima occasione perduta. Il cammino verso la parità di genere è lungo e purtroppo è irto di ostacoli.