Giornata della memoria: Vincenzo Merigo da Caravaggio all'inferno di Mauthausen
In occasione della Giornata della memoria è stata assegnata la medaglia d’onore al caravaggino scampato al lager
Visse tre anni terrificanti internato nel campo di concentramento di Mauthausen, mangiando le bucce delle patate che pelava per i nazisti. Sofferenze indicibili quelle patite da Vincenzo Merigo, deceduto nel 1991 in un incidente stradale. E proprio oggi, 27 gennaio, Giornata della memoria, gli è stata assegnata la medaglia d’onore.
Medaglia d'onore per il caravaggino Vincenzo Merigo per la Giornata della memoria
A ritirare l’onorificenza i figli, nell’Aula magna dell’Università degli Studi Bergamo, ex monastero di Sant’Agostino, alla presenza del prefetto Giuseppe Forlenza e del sindaco Claudio Bolandrini, invitato per l’occasione.
Una storia che riemerge con tutto il suo carico di angoscia dal passato, lontano ma non troppo, rimasta sempre viva nel cuore di chi l’ha vissuta ma celata ai più, anche in famiglia. Merigo era infatti persona riservata e parlava poco, ancor meno delle vicende belliche che segnarono indelebilmente la sua gioventù. Qualche aneddoto ogni tanto, soprattutto se passava a trovarlo un amico originario di Capralba, Battista Rho, che condivise con lui il periodo più buio della sua esistenza.
«Era nato nel 1918, da una famiglia di agricoltori di Casaletto Vaprio, mamma Maria Zucco, papà Stefano, che morì giovane, e sei figli: cinque maschi e una femmina - ha raccontato uno dei figli, Donatello, che con il fratello Marco gestisce il “Podere Montizzolo” (due le sorelle, Antonella e Patrizia) - Lui venne chiamato alle armi il primo maggio 1939, in fanteria, e poi fu ricoverato più volte in ospedale. In guerra andarono anche i fratelli: Giuseppe venne fatto prigioniero come lui in Germania, Angelo fu ferito a Tobruk in Libia e portato all’ospedale militare di Bologna (sarebbe poi il padre dell'attuale presidente della Bcc di Caravaggio Giorgio Merigo ndr.), Arrigo finì in Abissinia, fu fatto prigioniero dagli inglesi e venne rilasciato un anno e mezzo dopo la fine del conflitto, infine Rosolo combatté in Italia e, per un certo periodo, in Francia. Fortunatamente tornarono a casa tutti vivi».
La prigionia per tre anni dopo l'Armistizio
L’esperienza della deportazione in terra tedesca fu atroce. Dopo l’armistizio Vincenzo fu catturato a Cremona dai tedeschi, il 9 settembre 1943, e finì in Germania, a Mauthausen: era il prigioniero numero 20mila 129. Lavorava in cucina, come muratore, puliva le baracche e faceva tutto quello che serviva al campo.
«Diceva che con gli ebrei i tedeschi erano terribili, con gli italiani erano un po’ meno cattivi ma le sofferenze non sono certo mancate - ha spiegato Donatello - Ricordava i cani che azzannavano la gente... Pelava le patate ma gli lasciavano mangiare solo le bucce, che cuoceva. Aveva perso una quarantina di chili. Ricordo che da bambino, quando avanzavamo qualcosa nel piatto o chiedevano di più, anche solo un mandarino, diceva “che avremmo dovuto provare a stare in guerra”. Certo la generazione che ha vissuto quei tempi ha sviluppato un carattere incrollabile, noi siamo più “molli”. Se fosse qui oggi direbbe che siamo spreconi».
«Consumate le calzature militari che indossava era rimasto scalzo e sui piedi metteva degli stracci, infatti ha sempre avuto problemi per i geloni - ha raccontato ancora il figlio - Tre anni durissimi, diceva che sembrava non fosse mai finita... Quando sentiva qualcuno dire che nei campi non era come si racconta lui diceva “no, era così”».
Venne liberato dalla truppe alleate il 26 aprile 1945 e trattenuto fino al 7 luglio.
«Tornato dal conflitto, dopo il matrimonio con mia madre, Maria Cornalba di Farinate, mancata una decina d’anni fa, erano venuti insieme qui a Caravaggio, affittando una cascina - ha continuato - Veniva a trovarlo l’amico deportato con lui nello stesso campo: sono rimasti legati per tutta la vita. Battista era più loquace di mio padre e così emergeva qualcosa di più su quegli anni bui ma erano uomini che non amavano né piangersi addosso né credersi supereroi».