Troppi videogiochi 14enne rischia di finire in comunità

Il 14enne, che rischia di essere allontanato da casa, ha scritto al giudice per chiedere aiuto. Inascoltato l'appello della mamma e dei nonni disponibili a ospitarlo.

Troppi videogiochi 14enne rischia di finire in comunità
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Troppi videogiochi 14enne rischia di finire in comunità. La sua dipendenza stava compromettendo anche i risultati scolastici e così il giudice ha deciso per un allontanamento da casa. Succede a Crema e ha sollevato le forti critiche del Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani Onlus di Brescia.

Troppi videogiochi 14enne rischia di finire in comunità

“Buongiorno giudice, sono Antonio M. (nome di fantasia). Io non voglio assolutamente andare in comunità, voglio vivere serenamente a casa con mamma. So di aver sbagliato non andando a scuola e giocando con i videogiochi, ma da quando ho parlato con la tutela minorile e mia mamma e mi hanno detto che entro un mese mi avrebbero portato via da casa mia, preciserei che non mi avevano mai avvisato, né loro né Ombretta che se continuavo così mi avrebbero portato via dalla mia mamma, ho cominciato ad andare a scuola impegnandomi e ho consegnato alla mamma la Play Station perché ho capito che stavo sbagliando e non voglio essere portato via dalla mamma, perché io con la mamma sto bene. La prego mi faccia rimanere nella mia casa e mi aiuti, se mi può aiutare, a stare qui. Perché non voglio andare in comunità. Grazie”. Questo l’appello scritto al giudice da un ragazzo quattordicenne di Crema, che rischia di essere allontanato dalla famiglia, perché gioca troppo con i videogiochi e non va bene a scuola.

Mamma e figlio inascoltati

Nel decreto si legge: “…il minore Antonio versa in uno stato di forte dipendenza dai videogiochi con conseguente disinvestimento e distacco dalla realtà circostante, […] senza alcun tipo di controllo e protezione da parte della madre, inadempienza scolastica ed isolamento sociale.”

La madre ha fatto appello al provvedimento, ma i servizi sociali sembrerebbero intenzionati a eseguirlo comunque, senza nemmeno aspettare l’esito della Corte di Appello: avrebbero persino minacciato la mamma di venire a casa con i carabinieri per portarlo in comunità in maniera coatta, come già autorizzato dal Tribunale. "Tanto sfoggio di muscoli appare del tutto inappropriato, visto come il ragazzo abbia deciso di mettersi in riga piuttosto che essere deportato. La storia è costellata di episodi sconcertanti - ha fatto sapere il CCDU in una nota - Il Tribunale non ascolta la supplica del ragazzo, in violazione alla Convenzione di New York sui Diritti del Fanciullo ratificata dal Parlamento italiano, e non ascolta nemmeno la richiesta dei nonni, disponibili ad accogliere il nipote per aiutarlo a superare la sua temporanea difficoltà, come previsto dall’articolo 337ter e dalla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali".

L'imposizione coatta prevale sul buon senso

“Questo decreto mette in luce tutte le criticità dell’attuale sistema di Tutela Minorile - ha sostenuto Sonia Manenti del Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani Onlus - L’imposizione coatta sembra prevalere sul buon senso. Questa sostituzione dell’approccio umano e umanistico con la forza bruta, è figlia della cultura psichiatrica, che tratta gli individui come oggetti. Le valutazioni psichiatriche, di cui è pieno il dossier, non sono supportate da test di laboratorio o prove oggettive, e sono per loro natura soggettive e opinabili. Eppure, vengono riprese dai tribunali come oro colato, impedendo di trovare vere soluzioni e di aiutare questi ragazzi. L’approccio medicalizzante e disumanizzante verso i Gian Burrasca non va bene: le istituzioni dovrebbero aiutare le famiglie, anziché farle a pezzi”.

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