Treviglio

Fu prigioniero dei nazisti durante la guerra: una medaglia d’oro al soldato Ernesto Cerea

A ritirare l’onorificenza i figli Lorenzo, Stefano e Paolangelo, nel corso di una cerimonia tenutasi nell’Aula dedicata a Trento Longaretti

Fu prigioniero dei nazisti durante la guerra: una medaglia d’oro al soldato Ernesto Cerea
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A quasi 34 anni dalla sua scomparsa, il soldato Ernesto Cerea riceverà la Medaglia d’Onore conferita dal Presidente della Repubblica. Un riconoscimento per la sua prigionia in un lager tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale. A ritirare l’onorificenza i figli Lorenzo, Stefano e Paolangelo, nel corso di una cerimonia tenutasi martedì pomeriggio nell’Aula dedicata a Trento Longaretti, poco prima della seduta del Consiglio comunale.

Dai campi all'Alfa Romeo

Ernesto Cerea era nato a Mornico al Serio il 6 luglio del 1922. Figlio di contadini, Angelo e Valeria Gatti, all’età di 7 anni si trasferì a Treviglio, in via Moroni, dove il padre intraprese la professione di mediatore di bestiame.

"Una storia da “Albero degli Zoccoli” - ha raccontato il figlio Stefano, ex dipendente del Comune per cui sino a pochi mesi fa gestiva il settore del verde - i miei nonni vivevano in affitto in una cascina, litigarono col padrone e se ne andarono su un carretto trainato da cavalli. Proprio come racconta il film di Ermanno Olmi".

Ernesto Cerea frequentò la scuola di Arti e Mestieri (l’attuale sede della Cooperativa Pensionati, ndr) e poi a 14 anni cominciò un periodo di formazione all’Alfa Romeo a Milano, dove successivamente iniziò a lavorare come operaio.

La chiamata alle armi

Sino al gennaio del 1942 quando, inevitabile, arrivò la chiamata alle armi: dapprima per l’addestramento a Chiavari (Ge), poi, a luglio, direttamente sul fronte greco-albanese come marconista, raggiunto dopo un lungo trasferimento in treno.

"A questo viaggio è legato un aneddoto - ha rivelato Stefano Cerea - Il convoglio sarebbe passato da Treviglio, dove era prevista una sosta. Ai militari non era concesso scendere, quindi mio padre chiese a un amico che si trovava nei pressi dei binari di andare a chiamare sua madre per salutarla. Mia nonna arrivò di corsa, ma purtroppo non fece in tempo a vedere il figlio".

Non sapeva che avrebbe dovuto attendere più di tre anni per riabbracciarlo, dopo averlo creduto addirittura morto (tanto che il fratello Luigi, chiamò il figlio Ernesto in sua memoria).

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La prigionia

Con l’armistizio dell’8 settembre 1943, i tedeschi diedero due possibilità ai soldati italiani: arruolarsi nella Rsi (la cosiddetta Repubblica di Salò) o diventare prigioniero. Ernesto Cerea scelse la seconda opzione e venne quindi internato in un campo di prigionia e lavoro in Germania. Un anno e mezzo di stenti, di soprusi e di fame (tanto da arrivare a rubare il cibo destinato ai cani da guardia), che lui annotò in un’agendina. Sino al febbraio del 1945, quando i sovietici cominciarono ad assediare i tedeschi e a liberare i campi.

"Liberare per modo dire - ha precisato Stefano Cerea - Mio padre venne infatti trasferito in un campo di prigionia in Unione Sovietica. Quando finì la guerra nessuno sapeva che fine avesse fatto. Ecco perché si credeva che fosse morto. Invece, venne rilasciato dai russi e con mezzi di fortuna il 6 ottobre del 1945 arrivò dapprima a Bergamo e infine a Treviglio".

Il ritorno a casa

Dove ricominciò la sua vita esattamente dal punto in cui l’aveva lasciata: riprese il suo lavoro all’Alfa Romeo (prima a Milano, poi ad Arese) e nel 1950 sposò la fidanzata Mariuccia Crespi. Dalla loro unione nacquero i figli Lorenzo (nel 1952) e Stefano (nel 1959). L’8 febbraio del 1972 la serenità della famiglia venne sconvolta dalla morte di Mariuccia. Tre anni dopo Ernesto si risposò quindi con Elena Colombo Giardinelli, che due anni più tardi diede alla luce Paolangelo. Il 17 ottobre del 1989, infine, Ernesto Cerea fu colpito da edema polmonare e morì.

Ernesto Cerea

"Mio padre restò segnato si fisicamente che psicologicamente dalla guerra e dalla prigionia - ha sottolineato Stefano - Il giorno dopo il suo ritorno mi hanno raccontato che pianse per un giorno intero. Forse era il suo modo di sfogare quei tre anni e mezzo trascorso lontano. Non parlava volentieri di quello che aveva passato. Ricordo che dopo la morte di mia mamma, io dormivo con lui e gli chiedevo sempre di raccontarmi di quel periodo. Ma finiva sempre che mi addormentavo e di questo ancora oggi mi rammarico, perché avrei voluto saperne di più. Pensiamo sempre che le persone che accompagnano la nostra vita siano eterne e che ci sarà sempre tempo. Invece non è così. E’ importante che si raccontino questi episodi della nostra storia, perché se vuoi costruire il futuro devi ricordare il passato. Purtroppo - ha concluso Stefano Cerea - l’uomo non impara mai dal suo passato: basta guardare le assurde guerre che ancora oggi esistono".

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