Tre settimane accanto agli "ultimi" nella favela brasiliana
Ecco il reportage di tre settimane di volontariato della nostra collaboratrice Chiara Allevi
La nostra collaboratrice Chiara Allevi, trevigliese, a luglio ha trascorso tre settimane in una favela in Brasile. Ecco il reportage della sua esperienza di volontariato.
Nella favela in Brasile
In Brasile c’è una città, la terza più grande dello Stato, nelle cui strade del centro sembra di essere in Portogallo. È la città dove, negli anni ’90 Michael Jackson girò il video della sua celebre "They don’t care about us". È una città meravigliosa e piena di contraddizioni: dove alla bellezza dell’oceano e delle spiagge caraibiche si contrappongono i quartieri più poveri con strade strette e case fatiscenti, dove la criminalità la fa da padrona. In una favela di Salvador de Bahia, questo il nome della città dove è rimasto un pezzetto del mio cuore, c’è la parrocchia di Jesuis Cristo Ressuscitado, dove dal 2021 vive come «fidei donum» il sacerdote cremonese don Davide Ferretti e dallo scorso ottobre ha iniziato un periodo di missione la mia cara amica Gloria Manfredini.
Il ritorno dopo 5 anni
A Salvador ero già andata, proprio con don Davide e Gloria, nell’estate del 2018 e del 2019 e ho deciso di ritornare, questa volta con il mio compagno e altri ragazzi, perché sentivo che il Covid non mi aveva permesso di completare questa esperienza, di chiudere - se così possiamo dire - il cerchio. È difficile raccontare ciò che lì ho vissuto senza cadere nelle solite (seppur verissime) considerazioni: sono stata accolta da tutti a braccia aperte, ho sperimentato la gioia anche nella povertà, ho ricevuto più di quanto abbia dato… Perché abitare per tre settimane in una favela a 7000 chilometri da casa non vuol dire solo fare, e noi abbiamo fatto tantissimo, ma soprattutto stare. Stare in mezzo alla gente scoprendo il loro modo di vivere, abbandonando nella pratica quotidiana la logica europea che ci portiamo appresso (e che spesso crediamo essere la migliore) per seguire la loro. Stare ai loro orari, parlare la loro lingua e il loro dialetto, assumere abitudini diverse. Abituare lo sguardo, l’olfatto e l’udito a stimoli diversi che, all’inizio, possono risultare disturbanti.
L'insegnante che ha perso un piede
La nostra routine giornaliera era molto semplice: dopo la colazione ci dividevamo e c’era chi stava con Gloria e chi accompagnava don Davide. Gloria si occupa di organizzare laboratori didattici in una scuola dell’infanzia e in un centro educativo per il rinforzo scolastico: con lei abbiamo giocato con i colori con i più piccoli e con la matematica e la geografia con i più grandi (incredibile come le materie che a scuola mi piacevano di meno sono diventate divertenti!). Chi preferiva andare con il parroco, molto spesso lo accompagnava a casa di anziani e malati che regolarmente lui va a visitare. Questi incontri sono sempre preziosi e… sorprendenti! Una volta che io e il mio compagno siano andati con lui, abbiamo fatto visita a un’anziana signora che ha perso un piede a causa del diabete e che ci ha raccontato la sua vita di insegnante di prima alfabetizzazione per i bambini - e gli adulti - del quartiere. La zona dove eravamo, infatti, fino alla fine degli anni ’90, era costruita tutta su palafitte. Era un ambiente malsano e molto, molto più povero di ora. L’istruzione e soprattutto la padronanza della lingua scritta e orale sono alla base di ogni progresso. Per questo ha deciso di dedicare la propria vita a insegnare a leggere, scrivere e far di conto a chi abita quelle zone: per dare loro gli strumenti per affrontare la vita.
Neno il pittore
Oppure abbiamo conosciuto Neno, un uomo di circa 40 anni, con una grave disabilità fisica. Siamo andati a trovarlo a casa sua. Dopo aver superato un ingresso pieno di panni stesi e una zona giorno angusta e buia, ci ha accolti nella sua camera: una stanza piccola, senza finestre sull’esterno e con i muri senza intonaco. Lui era sdraiato sul letto e davanti a sé aveva una console attaccata a una tv. La sua disabilità non gli permette di camminare o di muoversi agilmente, ma non gli impedisce di sorridere, ridere, scherzare e soprattutto di dipingere: crea tele con paesaggi meravigliosi che poi vende per aiutare l’economia di casa. Prima, mentre scrivevo che bisogna abituare i propri sensi era a questa casa che pensavo: gli occhi si sono posati su un ambiente buio, fatiscente, disordinato e l’aria era pesante tanto da non riempire i polmoni. L’istinto, legittimo e comprensibile, spingerebbe a scappare da lì, a cercare una via d’uscita.
Il mercato degli schiavi
La nostra logica ci porterebbe a giudicare il loro modo di concepire la cura della casa, la gestione dei soldi, il rapporto difficoltoso con il lavoro e le responsabilità, il senso di legalità. Se si guarda al mondo della favela con gli occhi occidentali appare tutto sbagliato, da aggiustare. E forse è così. Ma il compito dei missionari, e per estensione anche il nostro compito lì, non è quello di importare il modo giusto di fare le cose (grazie al cielo questa visione del missionario civilizzatore ce la siamo lasciata alle spalle) ma quello di stare, accogliere, ascoltare. Perché, anche se è difficile da concepire, i diversi e gli stranieri, lì, siamo noi. Quando nell’estate 2018 su un pullman di linea il nostro accompagnatore mi aveva detto che dovevo mimetizzarmi con loro scoppiammo tutti a ridere: io sono bionda, occhi verdi e pelle color fantasmino Casper… loro sono tutti afrodiscendenti, tutti di colore con capelli e occhi scuri. Perché? Perché in una città fondata da portoghesi la stragrande maggioranza è nera? La risposta a questa domanda è contenuta nei libri di scuola (ancora una volta l’importanza dell’istruzione tanto bistrattata anche qui in Italia): Salvador era il centro commerciale degli schiavi provenienti dal continente africano. Ai piedi del Pelurinho (il quartiere storico, meraviglioso e coloratissimo: andate a cercare le immagini) c’è il Mercado Modelo, una costruzione dove oggi si acquistano souvenir, ma un tempo si vendevano e compravano schiavi.
Il problema dell'identità
Quando nel 1888 in Brasile - finalmente - fu abolita la schiavitù (e il Brasile fu l’ultimo a farlo) tutti gli schiavi si trovarono liberi, senza lavoro, senza un posto dove andare, senza istruzione, senza un’identità culturale legata alla propria terra. Questo grande problema di identità si ripercuote ancora oggi e forse è la chiave di lettura di molte logiche/non logiche che si possono incontrare: se nelle mie vene circola sangue che è stato schiavo, come posso credere che il lavoro mi nobiliti? Se nelle mie vene circola sangue di chi non è stato libero, come posso essere in grado di reggere il peso della responsabilità e della scelta? Se nelle mie vene circola sangue di chi ha subito abusi da parte dei potenti, come posso fidarmi della legge e non cedere alla seduzione della malavita? Se nelle mie vene circola sangue di chi non poteva fare altro che faticare, come posso pensare a un tempo libero che non sia all’insegna dell’eccesso? Se nelle mie vene scorre sangue africano, ma vivo in Brasile e non mi considerano né africano né brasiliano, come posso sentirmi al mio posto e prendermene cura? Aggiungiamo poi un sistema scolastico che prevede tre ore al giorno di lezione e la promozione solo per presenza e, forse, tutto quello che ci circonda ha un senso. E lo sguardo da giudicante diventa accogliente.
Perché questo viaggio in Brasile
In molti mi chiedono perché sono andata in Brasile: i poveri ci sono anche qui e lì io non ho cambiato niente. Io, Chiara Allevi, in tre settimane a Salvador de Bahia non ho fatto niente di veramente utile: i bambini della scuola dell’infanzia con cui ho giocato fra un mese non si ricorderanno di me, i giovani con cui ho chiacchierato continueranno la loro vita di prima, i malati e anziani che abbiamo visitato non guariranno. Le case in cui siamo entrati non verranno sistemate, la criminalità non cesserà di esistere: la droga continuerà ad essere venduta, le sparatorie continueranno a esserci, le rapine agli autobus anche. E allora perché? Perché ho speso tempo, soldi, messo a rischio la mia sicurezza personale? Perché una cosa è cambiata: il mio sguardo. Ho vissuto per tre settimane in una favela e mentre i primi giorni vedevo le discariche ai lati delle strade, le case cadere a pezzi, i bambini con il naso incrostato, gli insegnanti che potevano fare meglio, cibo poco sano, odore di fogna, poi i miei occhi hanno iniziato a vedere persone, solo persone. Le stesse che incrocio per le vie di Treviglio o di New York o di Pechino. Le stesse che siedono in Parlamento o che sono disoccupate, che vivono in grandi case sul mare o che stanno scappando dalla miseria, che prendono aerei in business class o che sono disperse in mezzo al Mediterraneo su un gommone invisibile. Vedo persone con la loro storia personale e culturale che hanno la stessa dignità mia e di chiunque altro.
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